Aquileia prima di Aquileia
Quello che le fonti storiche non ci hanno tramandato, gli scavi archeologici ci stanno restituendo. Sapevamo che la via Iulia Augusta romana ripercorreva l’antico tracciato della via dell’ambra, ma non si sospettava che nei pressi di quella che diventerà la metropoli romana, già esistesse un villaggio in grado di svolgere, su scala ridotta, quel ruolo emporiale che fu di Aquileia.
Il villaggio protostorico sorto intorno al 1700 a.C. in località Ca Baredi (frazione di Terzo d’Aquileia) era lambito dal fiume Torre ed era probabilmente uno snodo nevralgico di comunicazione nel bacino fluviale Torre-Natisone-Isonzo, che connetteva l’Adriatico con i passi alpini e i castellieri carsici e istriani con le regioni adriatiche occidentali.
I numerosi ritrovamenti casuali di manufatti nel corso dell’Ottocento e del Novecento avevano già fatto comprendere quanto l’area aquileiese fosse intensamente popolata durante la protostoria. Sono stati proprio quei manufatti ad orientare gli scavi archeologici successivi. I resti del villaggio dell’età del Bronzo di Ca Baredi/Canale Anfora e quelli del villaggio dell’età de Ferro nella zona dell’ex Essicatoio ad Aquileia, dimostrano l’importanza che la zona aveva acquisito. Nel 2013 l’Università di Udine, sotto la direzione di Elisabetta Borgna, ha dato avvio ad un’articolata campagna di ispezioni. Le indagini hanno messo in luce un villaggio delle dimensioni di 10 ettari, edificato nel Bronzo medio (tra il 1760 e il 1520 a.C.) e che sembra essere stato abbandonato nel corso del Bronzo recente (1250 a.C.). Se la data di nascita della comunità di Ca Baredi coincide con le coeve stazioni terramaricole della media e alta pianura friulana (il che lascia presupporre un popolamento omogeno della regione friulana) la cesura del Bronzo recente potrebbe essere spiegata con l’invasione osco-umbra, che costrinse le comunità friulane a trasferirsi (forse anche solo temporaneamente) in luoghi più facilmente difendibili. Gli sconvolgimenti di questa fase della storia (dalle migrazioni dei cosiddetti “popoli del mare all’invasione osco-umbra della penisola) segnano l’inizio della “civiltà dei castellieri” per l’intera regione Giulia. Anche le caratteristiche urbanistiche (l’orientamento nord/sud) del villaggio mostrano affinità con gli altri centri della pianura friulana e anche con i villaggi terramaricoli della pianura padana.
I numerosi ritrovamenti fittili nei due insediamenti dimostrano una continuità demografica che molto probabilmente arrivò fino alla fondazione di Aquileia. La colonia latina di Aquileia non nascerà quindi sulle rovine di un popolo vinto, ma a fianco di un popolo alleato, quello veneto, che abitava la pianura friulana da almeno 1500 anni.
Aquileia
Quando i romani decisero di far sloggiare i galli che avevano costruito un oppidum a dodici miglia dalla futura Aquileia, gli intimarono di oltrepassare le Alpi, considerate già allora il confine naturale e politico dell’Italia. Naturale quindi che le arterie stradali che dalla colonia latina di Aquileia conducevano alle Alpi, assumessero in primo luogo una funzione militare, perlomeno fino al loro definitivo controllo ottenuto con molte difficoltà da Ottaviano Augusto.
Nel 186 a.C. dodicimila celti provenienti dalla Carniola (Slovenia) (50.000 persone considerando le famiglie) si stanziarono a circa dodici miglia dalla futura colonia di Aquileia [si ipotizza nei pressi di Medea], in un territorio che essi riferivano come libero (res nullius). Ad ogni modo promettevano di vivere in pace e di accettare il protettorato di Roma ove avessero avuto il permesso di restare.
Dei fatti riguardanti la costituzione della colonia latina di Aquileia se ne occupò prevalentemente lo storico patavino Livio, che così racconta quel fatto che segnò la storia della regione Giulia: “L’anno stesso i Galli Transalpini, passati di qua, nel territorio veneto, occuparono, senza saccheggi né guerre, località non lungi da dove sorge oggi Aquileia, per fondarvi una cittadella. Ai messaggeri romani inviati oltralpe a chiedere conto di questo fatto, fu risposto che quelli erano partiti senza alcuna autorizzazione della loro gente e che di quanto stessero facendo in Italia, non si sapeva nulla”.
Il racconto liviano chiarisce nitidamente le motivazioni politiche del rifiuto senatorio alla richiesta dei galli di potersi stabilire pacificamente nell’area in cui avevano edificato il loro centro abitato ed anche alcune fondamentali indicazioni sul contesto in cui maturarono i fatti:
“Marcello mandò innanzi al proconsole Lucio Porcio, l’ordine di far avanzare le legioni verso la nuova città dei Galli. All’arrivo del console i Galli si arresero: si trattava di 12.000 armati, e la gran parte di essi portavano armi rubate in quelle campagne. Queste armi furono sequestrate con loro grande disappunto, ed insieme fu loro tolto ciò che avevano rapito saccheggiando le campagne o che avevano portato seco. Allora essi mandarono dei loro rappresentanti a fare le loro lagnanze a Roma. Introdotti in senato dal pretore Gaio Valerio, costoro dichiararono ‘che a causa dell’eccessivo aumento della popolazione della Gallia, essi erano costretti dalla scarsità di terreno coltivabile e dall’indigenza a passare le Alpi, in cerca di un luogo dove stanziarsi; e, senza far torto ad alcuno, si erano fermati su terreni che avevano trovato incolti su zone deserte; avevano anche cominciato a costruire una piccola città, il che dimostrava come essi fossero venuti con il proposito di non portare violenza ad alcun luogo coltivato né ad alcun centro abitato. Ultimamente Marco Claudio aveva fatto sapere che avrebbe mosso loro guerra, se non si fossero arresi. Essi allora, preferendo all’incerto esito di una guerra la sicurezza di una pace, fosse pure poco onorevole, s’erano arresi intendendo di porsi sotto la protezione, piuttosto che sotto il dominio, del popolo romano. Pochi giorni appresso era stato loro intimato di andarsene da quella città e da quelle campagne. Ed essi s’erano rassegnati a partire senza fiatare e andare alla ventura; ma intanto erano state tolte loro le armi e infine ogni altra cosa che avrebbero voluto portare e condurre con loro. Scongiuravano il Senato ed il popolo romano che non volessero incrudelire verso di loro innocenti, e che si erano arresi, più acerbamente che non si suole contro i nemici.’ Il Senato fece rispondere a questo discorso: ‘non avevano essi agito rettamente, quando calarono in Italia e si misero a costruire una città nel territorio altrui, senza permesso di alcun magistrato Romano, governatore della provincia; né era volontà del Senato che, essendosi arresi, fossero spogliati. Avrebbero mandato in loro compagnia legati al console, i quali, quando fossero ritornati da dove erano partiti, avrebbero fatto restituire loro tutte le cose, e poi subito sarebbero dovuti andare al di là delle Alpi e avrebbero dovuto far sapere ai popoli della Gallia che ritengano la loro moltitudine a casa: stavano le Alpi in mezzo, quasi insuperabile confine; diversamente stato di loro, quello che fu di coloro che primi osarono valicarle.’ I legati inviati furono Lucio Furio Purpureone, Quinto Minucio e Lucio Manlio Acidino. I Galli, avute tutte le cose che erano di loro proprietà, uscirono dall’Italia”.
Questa citazione di “armi rubate” e di “campagne rapinate e saccheggiate” chiarisce che il territorio friulano non risultava né privo di colture né disabitato, come viene ampiamente confermato dalle recenti indagini archeologiche. L’affermazione liviana “i Galli Transalpini, passati di qua, nel territorio veneto” indica che per i romani quelle terre appartenessero storicamente ai loro alleati veneti. E’ verosimile che la linea di demarcazione tra il mondo veneto e quello delle variegate tribù celtiche che popolavano la Carniola fosse proprio il Timavo. L’asserzione di Livio “senza permesso di alcun magistrato Romano” è invece una vera e propria affermazione di sovranità, che non può essere spiegata storicamente se non con l’esito delle operazioni militari del 220 a.C. Quella spedizione punitiva, guidata dai consoli Lucio Veturio Filone e Gaio Lutazio Catulo, che costrinse gli Histri a pagare un tributo a Roma, si spinse poi fino alle Alpi. E’ probabile che in quella occasione i romani imponessero, con una semplice esibizione muscolare, al florido regno Norico, una sorta di protettorato. Che i romani abbiano voluto fissare la loro sovranità fino allo spartiacque naturale delle Alpi e che i norici siano stati costretti ad un trattato di “amicizia” ineguale, lo possiamo dedurre dal racconto liviano sulla nascita della colonia latina di Aquileia.
L’intimazione ai galli di liberare il territorio occupato e di ripassare le Alpi fissò il Limes tra il mondo romano-italico e le tribù celtiche transalpine.
“et denuntient Gallicis populis, multitudinem suam domi contineant: Alpes prope inexsuperabilem finem in medio esse: non utique iis melius fore qui eas primi pervias fecissent”
“e intimasse ai popoli gallici di trattenere in casa propria le loro orde, giacchè le Alpi erano da considerarsi un confine insormontabile posto frammezzo: tanto peggio per coloro che per primi le avessero violate”
Per comprendere le condizioni storiche che portarono i romani nel “venetus angolorum” bisogna fare un passo indietro di qualche anno.
Nel 225 a.C. i romani dovettero affrontare una vasta coalizione che raccoglieva le diverse tribù celtiche stanziate da tempo nella pianura padana e altre provenienti dalla Gallia propriamente detta. (i Gesati, provenienti dalla valle del Rodano). Come già nel IV secolo a.C. ai tempi del re Brenno, anche in questa occasione i veneti furono leali e preziosi alleati dei romani.
La battaglia di Talamone fu uno dei maggiori successi militari di tutta la storia romana e spalancò le porte alla conquista della valle padana. Le campagne vittoriose del 223 a.C. e del 222 a.C. nella Gallia Cisalpina (con la caduta della capitale Mediolanum) portarono alla definitiva sottomissione degli Insubri che accettarono il protettorato romano. (con la formula della “deditio in fidem populi romani”). Furono create le colonie di Piacenza nel territorio dei Boi e di Cremona in quello degli Insubri.
I celti erano consapevoli di dover scegliere tra la sottomissione a Roma e la loro eliminazione etnica. Questo è il motivo che li spinse ad accettare l’alleanza con l’implacabile nemico di Roma, Annibale. Quella decisione però, fu per loro fatale.
Il 19 ottobre del 202 a.C., dopo 16 anni di guerra in cui l’Urbe mise sul piatto della bilancia la sua stessa sopravvivenza, i romani vinsero a Zama l’ultima battaglia contro il grande condottiero cartaginese. Annibale aveva valicato le Alpi dopo aver contratto alleanza proprio con quelle popolazioni celtiche della Gallia Cisalpina che non accettavano la sottomissione a Roma. Raggiunto il Rodano, Annibale trovò ad aspettarlo Magilo, venuto, insieme alle sue guide, ad aiutare il generale cartaginese ad attraversare le Alpi. Non così fu (e fu fatale per Annibale) per i popoli italici “socii” di Roma che, nonostante sconfitte e lusinghe, rimasero fedeli a Roma fino alla vittoria. Dopo la vittoria a Zama la vendetta romana contro i celti dell’Italia settentrionale non si fece attendere. I romani misero in atto una vera e propria pulizia etnica contro quelle popolazioni celtiche che da molto tempo rappresentavano un pericolo per Roma e per l’Italia. Nel 191 a.C. i Boi furono letteralmente decimati dai romani e i superstiti furono costretti a lasciare l’Italia raggiungendo quella che diventò la loro nuova patria, la Boemia (che prese il nome proprio da loro). Le attuali terre dell’Emilia e della Romagna furono completamente romanizzate. Le altre tribù galliche dell’Italia settentrionale dovettero scegliere tra la completa sottomissione a Roma e il ritorno nelle terre d’origine. Pochi decenni dopo lo storico greco Polibio poteva già personalmente testimoniare la rarefazione dei celti in pianura padana, espulsi dalla regione o confinati in alcune limitate aree subalpine.
I romani grazie all’alleanza con i consanguinei veneti potevano ora dispiegare la potenza della confederazione “romano-italica” in una sistematica colonizzazione della pianura padana.
È in questo contesto che va spiegata la decisione romana di rifiutare l’offerta dei “Celti transalpini” (si trattava probabilmente di Taurisci provenienti dalla Carniola) di assoggettarsi alla signoria romana, pur di conservare il possesso dei territori friulani appena occupati. I romani avevano ormai deciso di portare alle Alpi (che già consideravano il confine naturale d’Italia) il Limes politico del mondo romano-italico. La deduzione della colonia di Aquileia (181 a.C.), 50.000 ettari, 20.000 persone circa, nacque sulla base dell’esigenza di garantire il controllo definitivo delle Alpi Giulie attraverso il popolamento della regione friulana con popolazione italiche fedeli a Roma.
Strabone nella sua opera “Geografia” ricorda la colonia di Aquileia: “Aquileia, poi, che è la più vicina al recesso dell’Adriatico, è fondazione dei Romani, fortificata contro i barbari dell’interno. Si risale con le navi’ verso la città rimontando il corso del Natiso [Natisone] per circa 60 stadi. Essa serve da emporio a quei popoli illirici che abitano lungo l’Istro: costoro vengono a prendere i prodotti provenienti dal mare, il vino che mettono in botti di legno caricandole su carri e, inoltre, l’olio, mentre la gente della zona viene ad acquistare schiavi, bestiame e pelli” (V, 1, 8).
La citazione di Strabone ha indotto molti storici a ipotizzare che, oltre alla esigenza primaria di carattere militare, i romani volessero sfruttare appieno le potenzialità emporiali di Aquileia. Il consolidato rapporto di amicizia e di alleanza con i veneti diede ai romani la piena conoscenza delle possibilità offerte dal porto di Aquileia, funzionale a un retroterra che arrivava sino alle Alpi. Gli agevoli valichi delle Alpi Giulie permettevano poi il controllo ravvicinato di quelle regioni metallifere alpine, indispensabili a garantire l’approvvigionamento delle legioni romane. Non ultima tra le considerazioni che spinsero i romani ad insediare una colonia nel territorio di Aquileia, fu l’enorme rendita che il controllo doganale del porto e dei valichi alpini della regione Giulia poteva garantire. (Cicerone ricorda la società di riscossone “Aquileiense portorium”).
Lo stesso riferimento straboniano alla funzione militare di Aquileia [fortificata contro i barbari] fa comprendere però quanto questa caratteristica fosse preminente, perlomeno nella sua prima fase. I confini iniziali della città erano quelli del “castra stativa” militare che si era insediato. Un quadrilatero, racchiuso da mura e tagliato da due strade principali, il cardo [che tagliava l’accampamento da nord a sud] e il decumano [che tagliava perpendicolarmente il cardo in senso est-ovest].
Il senato romano inviò tremila fanti-coloni, 100 centurioni e 140 cavalieri, guidati dai triumviri Lucio Manlio Acidino, Publio Scipione Nasica e Gaio Flaminio. Con le famiglie e i parenti dei tremila fanti [provenienti tutti dal Sannio, corrispondente oggi al basso Lazio e a parte della Campania] la città raggiunse velocemente i ventimila abitanti. Nel 169.a.C. il Senato decise di rafforzare la nuova colonia, inviando altre millecinquecento famiglie latine che colonizzarono il territorio circostante. Ai coloni latini si aggiunsero anche dei veneti, probabilmente già residenti nella pianura friulana e che colsero al volo la grande opportunità di vivere protetti dal cono d’ombra delle aquile delle legioni romane, oltre che attratti dalle grandi opportunità economiche che si aprivano. Ben presto si svilupparono le caratteristiche CANABAE, agglomerati di case sparse che sorgevano nei pressi dei campi militari romani. Spesso prendevano il nome della legione acquartierata. Nel tempo divennero dei veri e propri villaggi permanenti, popolati da commercianti, artigiani e vivandieri che dovevano la loro ricchezza proprio al rapporto con i legionari del castrum. La latinità aquileiese fu quindi il frutto della fusione tra la popolazione latina che fondò la colonia e quella veneta autoctona. Il legame speciale che unì da sempre romani e veneti, ebbe forse, proprio ad Aquileia, il suo frutto più evidente.
Per più di sei secoli la popolazione di Aquileia crebbe fino a raggiungere una popolazione di duecentomila abitanti [senza considerare l’enorme numero di persone in transito]. Com’è naturale per una grande metropoli emporiale, la sua popolazione era estremamente composita: cittadini patrizi e plebei, contadini, pescatori, artigiani, commercianti, schiavi e soprattutto militari.
Tutti gli imperatori romani la frequentarono e la apprezzarono, ma una particolare predilezione per la “regina dell’Adriatico” l’ebbe Cesare Augusto, tanto da assegnarle il ruolo di capitale della Decima Regio Italica. Celebre l’episodio storico che portò nella città [nell’anno 15 a.C.] il re della Giudea Erode il Grande, ospite di Augusto.
Circondata su due lati dal fiume Natissa, collegata dalle acque del fiume all’Adriatico, crocevia dei principali assi di comunicazione che portavano nel Norico, nella Pannonia e in Illiria e attraverso la via Annia con Roma, Aquileia rispecchiava perfettamente le esigenze strategiche dei romani. La città divenne un importante porto fluviale collegato alla laguna: le navi romane facevano scalo a Gradus prima di risalire le acque del Natissa fino alla città [Il Natisone nasce sulle falde del Monte Maggiore con la confluenza del Rio Bianco e del Rio Nero. Al tempo dei romani in prossimità di Medeuzza si congiungeva con il fiume Torre e insieme alle sue acque circondava la grande metropoli romana, per sfociare direttamente nella laguna di Grado]. Uomini e merci provenienti dal nord Europa e dal Mediterraneo potevano quindi agevolmente arrivarci via terra o via mare.
Al tempo dei romani il Natissa si diramava in due tronconi: uno sfociava direttamente nella laguna e un secondo proseguiva verso le campagne di Marano [oggi Marano Lagunare].
Nei 636 anni della sua vita Aquileia romana fu amata da consoli e imperatori che la abbellirono e la ingrandirono. Raggiunse l’apice della sua magnificenza nel IV secolo d.C. ma fu proprio la sua bellezza e la sua ricchezza ad attirarle le brame dei popoli barbari che premevano alle porte dell’impero. L’eclissi di Aquileia romana non fu quindi opera di un lento declino economico e sociale dovuto a fattori endogeni, ma all’irruzione violenta di popoli che per secoli erano stati contenuti al di fuori del Limes grazie alla forza delle legioni. Quella forza che, perlomeno nella sua parte occidentale, l’Impero non possedeva più nel IV secolo d.C..
Nel 401 d.C. furono i Visigoti guidati da Alarico a devastare la Aquileia di “periferia” che si era dilatata fuori dalle sue mura. Gli aquileiesi avevano appena avuto il tempo di ricostruire le devastazioni lasciate dai visigoti, che dovettero fronteggiare la minaccia unna. Guidati dal loro re Attila, il “flagello di Dio”, gli unni, insieme ad un coacervo di tribù germaniche e slave, irruppero nella penisola proprio dalle Alpi Giulie. Come spesso accadde nella storia antica della penisola fu Aquileia a dover sopportare il primo urto.
Gli aquileiesi dettero ancora una volta dimostrazione del loro valore e del loro coraggio: l’assedio durò alcuni mesi ma alla fine la città fu espugnata. Gli storici si dividono sull’ampiezza del massacro e sul grado di devastazione subito dalla città. Sappiamo con certezza però che l’eccidio fu di proporzioni enormi, considerato che la città conteneva anche una parte della popolazione del territorio aquileiese che in città aveva cercato rifugio. La principale causa della scarsità di documentazione scritta su Aquileia e il suo territorio [che arrivava fino a nord di Udine] è dovuta proprio alla scia di roghi e distruzioni del sacco del 452 d.C.
Gli aquileiesi che riuscirono a salvarsi trovarono rifugio nelle isole della laguna. Quando gli unni tornarono nelle loro terre, gli aquileiesi tentarono di ricostruire la loro città ma invano. L’antico splendore commerciale era ormai un pallido ricordo, le rotte commerciali erano interrotte, l’impero era stato sopraffatto dai popoli barbari che l’attraversavano senza trovare più alcuna resistenza. La parentesi effimera della restaurazione imperiale giustinianea non poteva invertire un declino irreversibile. La calata dei Longobardi in Italia segnò il definitivo abbandono della città e il trasferimento della popolazione a Grado e nelle isole della laguna, con l’intenzione di edificare la “nuova Aquileia”. Il Patriarca di Aquileia Paolo, insieme con il clero, trasferì sull’isola le insegne vescovili, il tesoro e le reliquie più care alla tradizione aquileiese. Da allora Grado è conosciuta come “figlia di Aquileia e madre di Venezia”. La translatio del titolo di “regina dell’Adriatico” passerà più tardi a Venezia, la cui grande storia comincerà proprio sulle rovine della sua antenata.
Dott. Stefano Salmè